Con la sentenza in commento, la corte di Cassazione ribadisce ancora una volta l’orientamento sul riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilità contrattuale (o da contatto sociale) del sanitario.

La fattispecie

Una paziente di un centro odontoiatrico aveva agito nei confronti dello stesso nonché del direttore sanitario, che peraltro era anche stato colui che materialmente aveva eseguito il trattamento, lamentando che le cure ricevute si erano rivelate errate, al punto da peggiorare, anziché risolvere, i problemi.

Eseguita la consulenza tecnica, il Tribunale di Bologna aveva accolto la domanda, dichiarando la responsabilità contrattuale dei convenuti e condannandoli conseguentemente al risarcimento del danno alla persona nonché alla restituzione degli importi versati a titolo di corrispettivo delle cure.

Nel successivo giudizio di appello la decisione di primo grado veniva totalmente riformata, in quanto la Corte territoriale riteneva non fosse stato sufficientemente allegato e provato, da parte della danneggiata, sia l’aspetto del nesso causale tra evento danno e sia la condotta inadempiente del medico.

La danneggiata ha dunque proposto ricorso per la cassazione della sentenza di appello.

Il principio di diritto

Con l’unico motivo di ricorso la difesa della danneggiata ha sottolineato l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello nell’applicazione dei principi in materia di riparto dell’onere probatorio.

Premessa, infatti, la oramai pacifica natura contrattuale del rapporto tra paziente e sanitario di una struttura privata, la conseguenza in tema di riparto è quella per cui l’attore-paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l’insorgenza (o aggravamento) della patologia e allegare l’inadempimento del sanitario astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre rimane a carico di quest’ultimo dimostrare l’inesistenza dell’inadempimento oppure l’irrilevanza dal punto di vista eziologico.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso e, con sentenza n. 5128 del 2020, ha rilevato come la Corte territoriale, dopo aver condiviso l’opinione del CTU, che aveva ritenuto censurabili i lavori eseguiti dal medico sulla dentatura della paziente, abbia “inspiegabilmente” ritenuto rilevante il fatto che la danneggiata si fosse presentata con un proprio lavoro protesico incongruo, effettuato presso un altro studio.

Ha errato, dunque, il Collegio giudicante di secondo grado in quanto, essendo stata dimostrata la complessiva negligenza medica relativa all’opera prestata dal medico curante, oltre tutto inidonea a determinare un aggravamento delle condizioni di salute della paziente, sarebbe stato onere del medico provare il contrario, ovvero che le cure dal medesimo effettuate, per quanto inutili sul piano del recupero della funzionalità dell’apparato dentario con volto, non abbiano avuto alcun impatto sulla salute della persona rispetto alle condizioni pregresse di salute.

Conclusioni

Con il caso in esame, i Giudici Supremi, hanno avuto l’occasione di ribadire l’orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2008 secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, il paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante“.