L’assenza di convivenza o la distanza rispetto alla vittima del sinistro non esclude di per sé il risarcimento in favore dei prossimi congiunti. L’uccisione di una persona fa presumere di per sé una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, non rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti. Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo.

La fattispecie
I parenti di un pedone deceduto a seguito dell’investimento di un autocarro, citavano in giudizio la compagnia assicurativa dell’automezzo ed i responsabili dell’evento al fine di vederli condannati al risarcimento dei danni rispettivamente patiti. In primo e in secondo grado, le domande della madre e dei fratelli era rigettata sul presupposto dell’assenza di prova di un’effettiva compromissione del rapporto affettivo in essere al momento del fatto, mentre quella della moglie e dei figli era accolta, ma il danno non patrimoniale sofferto da costoro doveva essere ragguagliato alla realtà socio-economico in cui vivono i soggetti danneggiati (Romania).

Il principio di diritto
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3767 del 2018, accoglieva il ricorso ed annullava la sentenza di seconde cure rilevando da un lato che la realtà socio-economica nella quale vive la vittima di un fatto illecito era del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del danno aquiliano, dall’altro che in caso di morte di un prossimo congiunto, la sofferenza del familiare superstite può presumersi. Spetta quindi al danneggiante dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno, tuttavia per la Suprema Corte, tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, quindi la Corte di Cassazione trae la conseguenza che in caso di danno per perdita del rapporto parentale (uccisione di coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza è, di norma, connaturale all’essere umano. Il convenuto avrà poi la possibilità di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

Conclusioni
Da tempo i giudici hanno affermato che la morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, quali la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale e, tale danno, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di un bene leso e da tutelare, senza che un requisito in via esclusiva o condizionante come la coabitazione, ne determini la sussistenza o meno). La sentenza in commento si pone in linea con l’orientamento secondo il quale in tema di danno non patrimoniale, non è necessaria la prova specifica della sussistenza di tale danno, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione.